
Che cos'è un piano industriale? E l'Italia ne ha uno?
Gabriele Grassilli
2/18/20252 min read
Al meeting di Rimini dello scorso Agosto, il Ministro dell’Economia Giorgetti aveva dichiarato che, se vogliamo avere lavoratori più qualificati, bisogna capire se la crescita delle competenze debba essere incentivata dallo Stato o dalle imprese. Migliorare le capacità dei lavoratori vuol dire perfezionare l’elemento forse più importante di un’economia, ovvero il cosiddetto capitale umano. Ecco perché oggi un piano industriale investe più di tutto in questo. Ma che cos’è un piano industriale?
Nel mondo delle imprese viene chiamato business plan e documenta come un’impresa intende crescere ed essere competitiva. Simile, ma non identico, è il piano industriale di uno Stato. Che una Nazione abbia una politica industriale vuol dire il Governo controlla e orienta le trasformazioni strutturali, di lungo periodo, di un’economia. Ad esempio, un Governo può decidere di canalizzare gli investimenti per rendere il proprio Paese forte nella produzione ed esportazione di farmaci.
Ora, però, non è scritto da nessuna parte che un Paese debba avere un piano industriale.
Ci sono infatti dei “contro”.
Molti economisti (la scuola “classica”) sostengono che il Governo non dovrebbe intervenire nell’economia, perché la crescita sia favorita dalla libera concorrenza. Aggiungiamo a questo che l’intervento dello Stato è sempre discrezionale ed esclusivo. Esclusivo perché i soldi sono limitati e, se si investe in un settore, non ce ne sono per investire in un altro. Discrezionale perché il governo decide da sé dove vuole che si investa, ma non è detto che questo sia una scelta più profittevole di quella che avrebbero fatto le imprese, se fossero state lasciate libere.
Insomma, per la scuola classica, lo Stato dovrebbe intervenire nell’economia chirurgicamente, solo dove ci sono problemi rilevanti per la società. Ma proprio questo ci porta ai “pro” di un piano industriale nazionale.
Di solito si considerano “fallimenti di mercato” tutti i casi in cui lo scambio di beni sul mercato non genera la situazione “migliore per tutti” (nella quale, ad esempio, si hanno prezzi più bassi e salari alti abbastanza per i lavoratori, ma contenuti per i datori di lavoro che li pagano). Tuttavia, un fallimento di mercato può essere anche l’economia di un intero Paese che diventa sempre meno competitiva. Allora, vediamo che, nella storia, anche gli Stati che più hanno fatto propria la retorica del non intervento, sono intervenuti e non solo per combattere la povertà, ma proprio per rafforzare le proprie imprese. A questo aggiungiamo che un Governo può, se vuole, fare la differenza perché ha molto più potere (e risorse) dell’imprese.
In Italia sentiamo spesso lamentare l’assenza di un piano industriale negli ultimi 30 anni in cui avremmo dovuto e crescere e ci siamo solo impoveriti. Tentativi di questo tipo sono stati pochi. Il Governo Prodi (PD) nel 2006 ha istituto il Ministero dello Sviluppo economico. Nel 2016, Carlo Calenda (PD prima, Azione oggi) era a capo di tale Ministero e ha promosso il piano industria 4.0.
Il Governo Meloni oggi non sembra aver predisposto un chiaro piano industriale con una visione di lungo termine. L’azione del Governo è stata sinora incentrata al cosiddetto “risanamento” (= stabilità dei prezzi, conti pubblici in ordine e miglioramento graduale della condizione di tutti).
Dunque: non è detto che serva un piano industriale per crescere e, oltretutto, i metodi e i tempi della democrazia male si sposano con i piani di lungo termine. Con sondaggi pubblicati ogni settimana le politiche sono di cortissimo respiro. Meloni ha vinto parlando di Reddito di cittadinanza; in quanti la avrebbero ascoltata se avesse parlato di politica industriale?